Vendita del vino a distanza: un sogno impossibile?

wine bottles

DTC (direct to consumer): un acronimo che per le aziende del vino è sinonimo della miglior vendita possibile, quella diretta al consumatore finale. Una vendita che si realizza soprattutto in cantina, o in poche occasioni di fiere-mercato. Peccato che quando il visitatore-consumatore abita in un paese straniero (e ci limitiamo all'Europa, per non complicarci la vita ulteriormente), la vendita diretta si presenta irta di ostacoli burocratici, dazi e gabelle. Al punto che la Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti (FIVI) ha protestato ufficialmente per l'inerzia con cui la sua proposta viene affrontata. 

Alcune settimane fa, si è tenuto in California il DTC Wine Symposium, un importante evento  promosso da Free the Grapes! e rivolto all'industria del vino, durante il quale si è fatto il punto su quello che, anche negli USA - e per certi versi, soprattutto -, è il padre di tutti gli obiettivi: rimuovere gli ostacoli burocratici-legali che impediscono ad un qualsiasi wine lover di comprare vino in qualsivoglia cantina, e alle aziende del vino di venderglielo. Direttamente. Con la sua azienda, Reka Haros, marketer e produttrice, sperimenta già da tempo con successo una forma di DTC; in questa chiacchierata condivide con noi alcune riflessioni e la sua esperienza. 

Cominciamo dal principio: quando è iniziata l’avventura dell’azienda Sfriso nel mondo del vino? "La nostra attività di produttori comincia nel 2009. All’epoca avevamo 7 ettari con una produzione totale di circa 800 ettolitri di vino. Imbottigliavamo pochissimo. Nel 2012 abbiamo imbottigliato circa 20.000 bottiglie.  Fino al 2012 facevamo quello che fanno tutti: fiere, export management… mal di testa tanti, risultati pochi. Non eravamo competitivi. Nel gennaio del 2013 abbiamo stravolto ogni cosa. Abbiamo deciso di tagliare il cordone ombelicale con il trade, e abbiamo realizzato un nuovo listino prezzi decisamente diverso. Un listino che però ci permetteva un profitto diverso. Il nostro rischio era molto grande: d’accordo, non lavoravamo con importatori e distributori… ma il vino lo dovevamo vendere comunque, e quindi dovevamo sviluppare un business totalmente nuovo.

E' stato allora che abbiamo cominciato a vendere direttamente al consumatore.

Oggi, vendiamo all’estero circa il 98% delle nostre bottiglie. Il nostro obiettivo non è lavorare con i volumi, ma con il valore, quindi non è il numero di bottiglie prodotte che fa la differenza, ma il margine di oltre il 300% con il quale vendiamo le bottiglie".  

Come fate a servire il consumatore estero? So che consegnate personalmente le bottiglie al cliente finale: bellissimo, ma rischia di essere anche molto costoso e stancante. Soprattutto, non è per tutti. Giusto? "Le consegne sono fatte in modo organizzato. Certo,  servire clienti all’ estero richiede la conoscenza delle lingue e delle culture, anche se siamo tutti Europei. Un Olandese mangia e beve in modo diverso da noi. Ad uno Svedese interessano cose diverse rispetto ad un Tedesco. Sono tutte cose che vanno studiate. Come vanno studiate le leggi di ogni Stato europeo.  Oggi abbiamo aperto una nostra azienda di distribuzione in Olanda, il nostro mercato principale. In Danimarca collaboriamo con un importatore che è ritornato da noi dopo aver visto quanto siamo efficaci nel coinvolgere i consumatori Danesi. Per la Germania siamo in procinto di testare un canale ancora diverso. Comunque la chiave è raggruppare ordini ed utilizzare un trasportatore che espleti tutte le pratiche.  Ovviamente la spedizione ha dei costi: è per questo che conviene raggruppare gli ordini".

Quali sono stati i vostri primi problemi nel DTC e come li avete risolti?  "Il nostro primo e maggior problema è stato arrivare al consumatore, in tutti i sensi. Trovare il canale giusto non è facile. Noi abbiamo iniziato offrendo degustazioni private nelle case delle persone. Lì, abbiamo avuto la possibilità di conoscere altre persone che poi fortunatamente hanno voluto replicare la formula, condividendo l’esperienza con altri ancora… In tal modo, il passa-parola ha funzionato benissimo".

Di recente tu hai partecipato ad un particolare simposio su questo tema. C’erano altri produttori italiani? "La DTC Wine Symposium è un summit indirizzato alle aziende americane: io ero l’unica partecipante che veniva dall’Europa! La conferenza è stata molto interessante,  ho imparato molte cose e mi ha dato delle buone idee su come innovare la mia proposta. Ma la cosa più importante è stata capire cosa manca esattamente in Europa"

Ecco, veniamo al punto: cosa manca all’Europa in materia di Direct to Consumer? "Un sistema sviluppato come quello americano, che va dall’accoglienza dei turisti ai riordini dei vini. In America il DTC è un’infrastruttura che aiuta le aziende a crescere. L’offerta logistica è vasta, raccolgono i dati per fini statistici, esistono diverse tecnologie per il customer service e per il social listening. Diverse aziende offrono consulenze e workshop specifici per lo sviluppo del DTC. Niente di tutto questo esiste in Europa".

Stai dicendo che in America è più facile vendere vino direct to consumer?  "No. Negli USA non è più facile sviluppare il DTC. Ogni Stato ha le sue regole, come in Europa. Loro hanno il Three -Tier System, noi no. Ma loro hanno anche una lobby del vino molto forte che lavora affinché in tutti gli Stati si possa fare vendita diretta. La nostra lobby europea non è ancora così forte. La FIVI fa un bellissimo lavoro, ma non basta. A Bruxelles non è avvertita la necessità di cambiare il sistema.  E per cosa, poi? Per un sistema ed una infrastruttura di base che ancora non esistono? Ecco cosa manca: l’infrastruttura completa. Per sviluppare il DTC in Europa bisognerebbe idearlo come se fosse una startup internazionale: un nuovo business che va sviluppato in base ad un mercato ben definito. Il sistema vino in Europa è molto antiquato. Le leggi non tengono il passo con i tempi. Non basta far pressione su Bruxelles: bisogna saper pensare ed agire fuori dagli schemi comuni". 

Pensi che in Europa il DTC per il piccolo produttore sia fattibile in tempi brevi, diciamo un paio d’anni?  "Ne dubito. Le grandi aziende produttrici non hanno interesse a sviluppare il DTC, perché per anni hanno cercato di sviluppare ed aumentare il numero di distributori nei vari Paesi. Non penso che abbiano voglia di gettare il lavoro e gli investimenti di decenni per un’ avventura dall’esito incerto, anche se il DTC potrebbe aiutarle a migliorare le loro azioni di branding.

Dal canto loro, i piccoli produttori raramente hanno conoscenze, e soprattutto coraggio e mezzi per iniziare un’avventura che li porterebbe a mettere in gioco tutto, o quasi, il loro credo relativo al commercio dei loro prodotti. Per la maggior parte dei produttori, l’obiettivo principale è diventato vendere una bottiglia in più, e di conseguenza tutto il loro operato è in funzione di questo. Viceversa, il piccolo produttore dovrebbe pensare a vendere meglio, concentrandosi sul valore da attribuire alle sue bottiglie, non sul loro numero.  Come al solito, tutti fanno quello che hanno sempre fatto e nessuno guarda oltre il proprio naso per trovare nuove soluzioni. Ecco perché noi, azienda Sfriso, abbiamo dovuto cercare da soli le risposte alle nostre domande e necessità: perché nessuna associazione di categoria era preparata a darcele".

Però da qualche parte bisognerà pur iniziare... Qual è la cosa più difficile in questo modo di vendere il vino?  "La parte più difficile nel business del DTC è il cambiamento di mentalità. Il DTC deve partire da una convinzione: che il prodotto ha un valore, e che non bisogna avere paura di alzare i prezzi. Il consumatore finale non compera la bottiglia come la compera un importatore. Il consumatore finale cerca un valore aggiunto, un’esperienza, un racconto, un legame con il brand. Insomma, oggi se vogliono arrivare al consumatore le aziende devono essere pronte a ripensare se stesse. E a proporsi in un modo molto diverso da quello attuale".